la solitudine di Teresa
“A volte, tra due persone, ne nasce una. A volte è un figlio. Altre volte, è un mondo: legame a cui puoi tornare, chiudere la porta, smettere di correre, sentirti a casa. Io non mi sono mai sentita a casa. Sono sempre stata così, eredità non differibile. Quando ero piccola avevo bisogni diversi dai miei compagni di classe. E poi sognavo poco. Loro facevano molti sogni e avevano molti bisogni, io tentavo di ridurre tutto al minimo indispensabile. Loro aspettavano la ricreazione, si scambiavano le merendine, giocavano. Io non ho mai saputo giocare, ho imparato molte cose in questi anni, ma non sono mai riuscita ad imparare a giocare. Allora per non confondermi, durante la ricreazione, me ne stavo attaccata al termosifone, da sola, perché la solitudine riesce sempre a fare ordine. La solitudine è il cavarsela da soli. Il cavarsela da soli è rassicurante. Forse in questi anni ho confuso la solitudine con l’indipendenza. Ci provo, apro la scatola, ma non trovo le istruzioni. Non sono mai riuscita a sentirmi indipendente dentro a una relazione, dentro a una relazione non sono più io. Nella solitudine mi ritrovo. Tra la gente mi perdo. È una questione che riguarda me, è una questione complicata. È la paura che ritorna e poi ritorna, convincendoti che le assenze ti proteggono più delle presenze. Come riuscire ad essere soli senza sentirsi soli? La mia solitudine sta diventando carne, un pezzo della mia biologia, non è più solo materia della mente, coinvolge il mio corpo, ne organizza la circolazione del sangue, la trasmissione degli impulsi nervosi. Durante gli studi di neuroimaging funzionale è una cosa che ho visto: la sensazione di solitudine condivide lo stesso meccanismo fisiologico del dolore fisico. La solitudine, quella prolungata, ci porta a soffrire, ci rende feroci, un poco meno umani”.
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