La storia del bambino feticcio di Dino Buzzati
Ortona, agosto 1965
Alberto Melisana, corrispondente del “Corriere” da Pescara e Franco Manocchia, direttore della “Gazzetta di Pescara”, mi hanno gentilmente accompagnato qui a Ortona per aiutarmi, loro due pratici dell’ambiente, in una intervista alquanto difficile.
Si trattava di intervistare un uomo uscito in carne ed ossa dalle tenebre del Medioevo, uscito dai più sozzi e crudeli ludibri dell’epoca nera, uscito da una investitura di mistero e di morte, uscito fumigante ma ancora vivo dalla pentola del demonio.
E volevo persuaderlo a tirar fuori tutto questo bitume, a raccontarmi quello che si ricordava in ogni minimo particolare, mortificazione e vergogna, perché è una delle storie più folli e buie del Sud che abbia mai udito.
Si arrivò in automobile ad Ortona che saranno state le sei del pomeriggio. Faceva caldo, Melisana e Manocchia chiesero a un caffè dove si potesse trovare Giovannino Lucci, e avverto subito che questo non è il nome giusto, ma io gli ho fatto promessa formale di non nominarlo: tanto, quelli del posto capiscono al volo e, per gli altri, che si chiami Tizio o Tazio non ha la minima importanza.
Al caffè dissero che Giovannino Lucci, che loro sapessero, lavorava al comune e abitava in quel certo rione, uno anzi specificò che il Lucci, al comune, faceva l’usciere.
Ci portammo al quartiere indicato e chiedemmo informazioni a un giovanotto corpulento e accaldato. Ci disse che anche lui lavorava al comune e ci indicò la strada dove abitava il Lucci, era proprio a due passi, doveva essere, disse, la prima o la seconda casa a sinistra.
L’etichetta col nome Giovanni Lucci era proprio la prima delle varie etichette alla porta della prima casa a sinistra, si tratta di moderne abitazioni a due piani costruite dal comune per i dipendenti.
Melisana e Manocchia dissero che era meglio io aspettassi fuori, loro entrarono e suonarono all’uscio del piano rialzato a sinistra, vennero fatti accomodare.
Dopo circa cinque minuti ricomparvero insieme al signor Giovannino Lucci ma subito capii che di intervista lui non ne voleva sapere.
Il Lucci è un uomo di trentatré anni, statura modesta, aspetto gracile, in certo modo acerbo e patito come dopo una lunga malattia. Anche il volto, affilato e intelligente, si direbbe porti il ricordo di antiche sofferenze. Le labbra sottili hanno spesso una piega beffarda e amara.
“No, no” diceva. “Vi ringrazio della visita e ho piacere di conoscere il signor qui, ma vi giuro che no ho abbastanza dei giornali. Scusatemi ma non dirò più niente.”
“Perché? Sono state stampate delle inesattezze?”
“Non dico questo. Erano anche cose esatte ma senza nessun rispetto. Ormai mi sono rifatto una vita, ho una famiglia, di quella maledetta storia non voglio più sentir parlare.”
Eravamo fermi sul marciapiede. Da una finestra del piano rialzato due bambini e una donna stavano osservandoci. Quella era la pulizia, la serenità, la salvezza, dopo trent’anni di umiliazione e di tortura non ancora interamente esaurite.
Non era, in fondo, turpe che noi si volesse costringere l’uomo a disseppellire l’obbrobrio e a spalancarcelo dinanzi? Pensai a certi incettatori senza scrupoli che con abiette diplomazie inducono l’ingenuo contadino a vendere per tre soldi l’antico canterano di famiglia. la signora Lucci, al davanzale, sicuramente lo intuiva, e a ragione ci odiava.
“No, no,” diceva “anche se non viene fatto il mio nome. Se ne è già parlato fin troppo. Credetemi, non è per scortesia.”
Non vuole parlare della casupola dove nacque, in via della Giudecca, a Ortona. Non vuole dire ciò che faceva suo padre, sempre su e giù di prigione, né il triste mestiere di sua madre. Non vuole più ricordare l’aria di miseria, di ignoranza, di cupa superstizione che dovette respirare da bambino.
Non vuole più parlare della terribile nonna che per così dire si prese cura di lui, abbandonato dai genitori: madre di sua madre, Marietta di nome, allora cinquantenne, il fama di strega.
Né dello zio Cecco Mengoni, allora di ventiquattro anni, calzolaio, che aveva sposato la sorella tredicenne di sua madre.
E soprattutto non vuole più sentir parlare della inverosimile tresca fra lo zio e la nonna, origine della propria sventura.
“Io non chiedo niente a nessuno” ripete cortese ma fermo “chiacchieriamo pure, se volete. Andiamo a bere una cosa, qui al bar. Ma su quell’argomento lasciatemi in pace.”
Lo zio si ammalò, fu portato all’ospedale, i medici dissero tubercolosi. La nonna Marietta impazzì di dolore. Poiché i medici davano poche speranze e non c’erano soldi per le medicine, ci pensò lei con le sue arti di strega.
Giovannino Lucci è vestito propriamente, una camicia azzurra di bucato, i pantaloni scuri con la piega, lucide le scarpe marrone. Alle insistenze di noialtri sorride, con quella sua espressione ironica ed amara, è chiaro che non cederà.
Esiste, o per lo meno esisteva – si era nel lontano 1936 – la “fattura a trasferimento”, per togliere la malattia a una persona trasmettendola a un’altra. La nonna Marietta, accecata dal tardivo amore, pensò di approfittare del bambino. Prendeva degli aghi, li intingeva nella saliva del malato e li conficcava nelle carni di Giovannino. Così Cecco Mengoni sarebbe guarito.
Ci sediamo a uno squallido bar moderno, a poca distanza dalla sua casa. Giovannino Lucci si comporta da signore, ordina gli aperitivi, offre le sigarette a noi che oggi siamo i suoi aguzzini. La conversazione è lenta e difficile.
la nonna prendeva degli aghi, dei chiodi sottili senza testa, degli spilli senza capocchia, delle punte di forcine aguzzate con la lima e li conficcava, cinque sei al giorno, nelle gambe, nelle braccia, nella schiena, nel petto dell’infelice, perfino nella pianta dei piedi, tanto che Giovannino non riuscì più a camminare e si trascinava per la casa sul culetto.
Il bambino era stato trasformato in feticcio, uno di quei sinistri simulacri di argilla o di legno, trafitti da spilloni maledetti, che si trovano nei musei etnografici o criminali. il bambino urlava e piangeva, giorno e notte un continuo lamento. I vicini chiedevano. “ma che cos’ha Giovannino che strilla sempre?”. “da qualche tempo non sta bene” spiegava la nonna strega “e poi è anche capriccioso.”
Franco Manocchia tenta qualche approccio, con scarso risultato. “Il processo è stato nel ’39, vero, subito prima della guerra?” “Sì” è la secca risposta del Lucci. “E lei, la nonna, ha confessato, vero?” “No.” risponde il giovane “non ha confessato.”
In tre mesi quattrocento pungiglioni di metallo immersi nelle tenere membra, che di fuori non si vedesse niente se non dei piccoli gonfiori, dei segni rossi, delle pustolette. Arrivavano vicino al cuore, non lo toccavano però. Sfioravano i polmoni, lo stomaco, i reni, però non vi penetravano. Ah. era brava, come strega, nonna Marietta.
Ci alziamo, Giovannino Lucci si dimostra più che mai gran signore, non escogita facili pretesti per congedarsi, non ci manda a quel paese, propone anzi di fare insieme quattro passi. “Per prendere un po’ di fresco.” E ci incamminiamo verso il centro di Ortona.
Le urla del bambino erano tali che i vicini cominciarono ad avere sospetti. Un giorno che la nonna e lo zio erano fuori, presero il piccolo e lo portarono all’ospedale. Il medico lo esaminò perplesso, subito volle una radiografia. “Ma questo qui non è un bambino,” disse inorridito quando ebbe la lastra “questo è un puntaspilli!” Spostandosi lungo i fasci muscolari, aghi e chiodi avevano camminato, spargendosi in tutto il corpo. ma chi, e perché, lo aveva martoriato così? Nessuno pensava a un “sortilegio”. Finché un giorno, l’infermiera accingendosi a fargli un’iniezione, Giovannino vedendo l’ago andò in smanie: “Nonna, no, basta nonna, non farmelo più!”. E finalmente tutto fu chiaro, nonna e zio vennero arrestati.
Ortona massacrata dalla guerra, in gran parte è stata ricostruita. Vi grava però sempre, anche nella strada principale, un’aura di meridionale tristezza, che il mare non riesce a distruggere. Nella sera si accendono i neon, gente va e viene. Giovannino Lucci del delitto non parla, ma mi narra lo smarrimento e la fame dopo che, nel 1954, fu dimesso dal collegio di Chieti. Dovettero ricoverarlo ancora in ospedale, ricominciarono le tormentose estrazioni di aghi e di spilli, non era mai finita (non è ancora finita adesso, e sì che sono passati trent’anni).
Poi la ricerca di un lavoro, il primo impiego al comune come bidello delle scuole elementari, il tener duro per cancellare il passato, diventare un uomo come tutti gli altri, rispettabile e rispettato, nonostante quell’orribile ombra alle spalle, di cui non aveva colpa. Bidello, usciere, su, su, oggi impiegato al protocollo. Quanti sarebbero stati capaci di tanto?
Il processo si celebrò nel ’39 alla corte d’Assise dell’Aquila, i giornali pubblicarono poche righe, col fascismo la cronaca nera era tabù. Dopo avere confessato in istruttoria, la nonna e suo genero negarono. Condannati a trent’anni entrambi. In carcere la strega morì.
“E suo zio?” domandò al Lucci.
“È guarito. Per mio zio ho firmato l’atto di perdono. Così è stato graziato. Sono riuscito a trovargli un posto al comune. Adesso lavora da spazzino. Ogni tanto ci incontriamo. Lo invito al caffè, discorriamo.”
“E di che cosa parlate? Di quella faccenda là?”
“Ah, no. Di quella faccenda neanche una parola. Mai.”
(Tratto dal libro I misteri d’Italia, Oscar Mondadori, Milano, 1978)
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